- Ditelo ai Marine
- Uomini d’acciaio
- Un doppio guardaroba
- Corazze e costumi
- L’abito fa il monaco
- Il sogno americano
- Bibliografia
Ditelo ai marine [↑]
In Tell That to the Marines (Fig. 1), manifesto del 1918, James Flagg ebbe occasione di tornare, dopo il celebre manifesto dello Zio Sam del 1917, a dimostrare la propria singolare capacità di abbinare uno slogan semplice ed efficace a un’immagine coinvolgente. L’headline in rosso recita «Ditelo ai marine!» e si collega, tramite l’uomo in verticale che funge da corsia ottica verso il basso, al giornale, sul quale si può leggere il motivo dello sdegno dell’uomo: «Huns kill women and children!» (Gli Unni – i tedeschi, in senso dispregiativo – uccidono donne e bambini!).

La scelta di utilizzare un giornale ha qui, in funzione propagandistica, un valore di testimonianza storica: la pubblicazione conferisce autorevolezza e veridicità alla notizia, restituendo all’osservatore l’illusione che l’illustratore si sia limitato a riportare il giornale e non abbia invece operato una mediazione o un’invenzione.
Come avverte Burke riferendosi a fotografie e ritratti (Burke, 2002), il realismo del giornale quotidiano, gettato a terra con disprezzo subito dopo essere stato letto, ci tenta nel farci confondere l’immagine per la realtà, aggirando il nostro istinto critico. Il giornale di Flagg abbatte la nostra barriera di incredulità, quella che normalmente erigiamo di fronte agli strumenti della comunicazione pubblicitaria, diventando prova di autenticità, una fonte certo ma – per dirla sempre con Burke – di una verità assoluta e primigenia, indiscutibile e pertanto considerata pericolosamente autentica a priori.
L’apparato testuale non è sintetico e ficcante come quello che accompagnava Uncle Sam, ma è la parte illustrata, limitata all’uomo, al cappello e al giornale, che risulta potentissima e dotata di uno spiccato senso narrativo. La scena è di semplice ricostruzione: l’uomo, un giovane americano in giacca e panciotto e dai capelli rossicci – un giovane adulto americano qualsiasi –, legge il giornale e viene a sapere dei tragici fatti causati dalla guerra in Europa. Non riesce a trattenersi ed è immediatamente pronto a spogliarsi degli abiti civili per arruolarsi e salpare oltreoceano, abbandonando lavoro, legami e quotidianità per combattere le ingiustizie perpetrate dai nazisti.
Lo sguardo è indignato e risoluto, privo di qualsiasi dubbio. Il giornale gettato con fastidio ai piedi, il cappello a terra, la giacca oramai quasi del tutto rimossa. L’uomo, in pochi gesti, si sta trasformando da membro della società civile in uno spietato e determinato marine.
Dal punto di vista tecnico, Flagg ripropone la scelta – vincente per lo Zio Sam e inconsueta all’epoca – di isolare una figura su uno sfondo bianco, così come la tavolozza, che attinge ai colori della bandiera americana in modo da innescare la scintilla del patriottismo e aumentare l’empatia col lettore, attraverso la familiarità cromatica.
La propaganda qui si esprime nella semplicità dei gesti, delle parole e nella quotidianità degli oggetti coinvolti: nel cuore di ogni americano, sotto un abito civile, batte un animo nobile, un paladino in potenza che attende di essere evocato. Nessun vero americano, sembra volerci dire Flagg, può restare impassibile di fronte a donne e bambini che vengono sopraffatti e implorano aiuto. Nessun vero uomo potrebbe, pertanto, desistere dall’arruolarsi.
Gli Stati Uniti erano entrati in guerra al fianco degli Alleati nell’aprile del 1917. Nei primi anni delle ostilità si erano tenuti in disparte dedicandosi soprattutto al commercio, inviando tonnellate di munizioni e altri beni principalmente verso i cugini inglesi. Tra il 1915 e il 1917 era però cresciuta la tensione con la Germania a causa dell’intensa attività dei sottomarini tedeschi, dediti all’affondamento sistematico delle navi mercantili che trasportavano queste merci in Europa.
Nei mesi successivi al loro ingresso in guerra, gli Stati Uniti stamparono migliaia di manifesti, ricoprendo i muri di ogni cittadina americana. Nella sola città di New York il 14 aprile 1917 centinaia di volontari affissero oltre 20.000 manifesti, tappezzando letteralmente ogni superficie (Eskilson, 2007). Nonostante il loro ritardato ingresso in guerra, quando questa finì, l’11 novembre 1918, gli States avevano prodotto più manifesti di ogni altra potenza coinvolta, a dimostrazione dell’importanza da loro attribuita alla comunicazione di massa.
Lo storico del graphic design Stephen Eskilson stima che il manifesto dello Zio Sam sia stato stampato, durante la Grande guerra, in circa 4 milioni di esemplari (Eskilson, 2007). Ecco perché non ci dobbiamo stupire se le scelte formali, iconografiche e, in generale, lo stile espresso dai manifesti di propaganda, abbiano avuto larga penetrazione ed eco nella cultura americana a partire dagli anni Venti. Il manifesto del 1917 è stato ripetuto e declinato in decine e decine di soggetti diversi, seri e faceti, sia durante la Prima guerra mondiale sia in tempi più recenti.
Ciò che a mio parere è passata innavertita è invece la fortuna iconografica del manifesto del 1918 anzi, per essere più precisi, il gesto di togliersi l’abito compiuto dal giovane marine in pectore. Mi riferisco in particolare al celeberrimo e ormai iconico gesto attraverso il quale il giornalista Clark Kent si trasforma, spogliandosi degli abiti civili, nell’eroe dei fumetti Superman (Fig. 2).
Pertanto, mi soffemerò ora su alcune testimonianze iconografiche e letterarie, nel tentativo di dimostrare la relazione tra superuomo e abbigliamento, sostenendo, in sostanza, che per compiere imprese fuori dall’ordinario è necessario cambiarsi d’abito. Così come l’uomo comune diventa marine spogliandosi degli abiti civili, Clark Kent, e gli altri eroi del fumetto – e oggi del cinema – diventano “super” potendo così finalmente gettarsi nella mischia e salvare in mondo. Le imprese eroiche, a quanto pare, richiedono un loro specifico dress code.

Uomini d’acciaio [↑]
L’abbigliamento, si potrebbe innanzi tutto puntualizzare, è un attributo fondamentale nel definire la dimensione sociale del genere di appartenenza, dato che – evidentemente – il suo uso differenzia nettamente gli uomini dalle donne. Il rapporto tra uomini e donne non è del tutto secondario al nostro discorso, poiché era stato utilizzato dagli spin doctor inglesi come un subdolo stratagemma di propaganda.
All’inizio della guerra, l’Impero Britannico disponeva dell’esercito meno strutturato tra tutte le potenze europee, con un totale di circa 160.000 unità. Ciò era principalmente dovuto al fatto che gli inglesi erano l’unica nazione nel conflitto sprovvista di una leva militare obbligatoria. Per questo motivo, le autorità britanniche dovettero immediatamente confrontarsi con la necessità di incoraggiare un’estesa partecipazione volontaria.
Durante i diciotto mesi che precedettero l’istituzione della leva, il governo britannico si affidò ai manifesti per incoraggiare il più ampio numero possibile di cittadini a unirsi ai combattimenti. Vennero di conseguenza realizzati centinaia di manifesti ottenendo un successo considerevole: più di 2,5 milioni di cittadini britannici tra l’agosto del 1914 e il gennaio del 1916 si unirono spontaneamente alle forze militari. Questi numeri apparentemente ingenti non furono tuttavia sufficienti a nutrire la vorace macchina di guerra al fronte, rendendo così la coscrizione obbligatoria una tappa comunque fondamentale.
Tornando al rapporto uomini-donne: quello che venne messo in atto attraverso una lunga serie di manifesti fu un autentico programma di evirazione mirato a creare un’aggressione psicologica in grado di mettere in discussione il ruolo sociale e la virilità di quegli uomini che non avessero aderito con slancio alla chiamata della patria. Nel 1915 Edward J. Kealey inaugurò il tema con il manifesto Women of Britain say ‘GO!’ (Fig. 3), col quale si metteva sotto pressione psicologica mariti e padri di famiglia in modo da convincerli a partecipare attivamente allo sforzo bellico.

Il messaggio di Kealey faceva leva sulla tradizione delle sfere separate, nella quale ogni genere era ritenuto avere un proprio ambiente naturale di riferimento: le donne nella sfera domestica e gli uomini in quella pubblica. Questo concetto viene mostrato letteralmente nell’opera: madre e figli sono abbracciati e restano a casa mentre i soldati marciano verso il fronte per compiere i doveri che il loro ruolo sociale – e probabilmente antropologico – richiede. Il bambino piccolo, afferrando le gonne della sorella, suggerisce che gli unici uomini cui fosse concesso di restare a casa senza subire onta alcuna fossero, appunto, i bambini.
Emerge pertanto un non secondario problema di affermazione della virilità e – di conseguenza – di azioni virili e di comportamenti da osservare per essere socialmente accettati in qualità di appartenenti a un certo genere. La propaganda bellica inglese voleva far sì che l’uomo adulto, per dimostrare di essere tale, andasse in guerra, indossasse l’uniforme perfezionando così la propria virilità e acquisendo gli strumenti per difenderla contro ogni contestazione, anche a costo finire ucciso.
Sulla base del manifesto di Flagg e di quello di Kealey, la virilità, almeno per l’uomo “normale”, parrebbe perfezionarsi nella prontezza di smettere i panni civili per indossare un’uniforme militare. Ma l’influenza del tema è a mio avviso più profonda ed è stata in grado di estendersi dalla propaganda alla cultura pop, come del resto è accaduto a molte altre innovazioni introdotte a cause della guerra, sia di tipo tecnologico sia culturale.
Il già citato genere dei supereroi dei fumetti fornisce i più celebri esempi di costruzione della virilità attraverso l’uso dell’abbigliamento. Con l’invenzione di Superman da parte di Jerry Siegel e Joe Shuster nel 1938, il cambiarsi d’abito (dal costume dell’eroe mascherato all’abito “civile” e viceversa) è stato un elemento cruciale nella narrativa supereroica. Così Superman, Batman e l’Uomo Ragno sono in grado, anzi devono, continuare a cambiarsi, compiendo quel gesto così abilmente sintetizzato in Flagg.
L’abito del supereroe è un costume e si accompagna spesso a una maschera. Come nel caso di Zorro ma anche nei lottatori del wrestling, a dimostrazione che non solo i fatti di guerra ma anche quelli sportivi (in assenza di guerre mondiali in corso) possono rendere un uomo un vero uomo. La maschera fornisce la possibilità di crearsi una nuova personalità attraverso l’abbigliamento e gli accessori indossati. Seppur sia banale da rilevare, è evidentemente l’abito che fa il monaco e che definisce l’immagine personale.
Superman venne inventato nel primo dopoguerra, tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, probabilmente anche come risposta iconografica che facesse da pendant maschile alla femminilità delle pinup di Gil Elvgren e di Juan Manuel Vargas.
L’immagine di Superman e di altri supereroi come Batman (apparso per la prima volta nel maggio 1939 in Detective Comics) o Capitan America (apparso per la prima volta nel marzo del 1941), va di pari passo col concetto nazional-socialista neo-nietzschiano dell’Übermensch, il superuomo. “Uomo d’acciaio” il soprannome di Superman, si traduce in russo come “Stalin”, nome divenuto famoso a noi tutti grazie al nom de guerre del rivoluzionario Joseph Djugashvili (Himmer, 1986).
Allo stesso modo Hitler voleva – stando al discorso di Norimberga del 21 settembre 1935 – che gli uomini tedeschi fossero «duri come acciaio Krupp», un’azienda – oggi fusa con la Thyssen nel gruppo ThyssenKrupp – già allora leader nel settore siderurgico. Resta sott’intesa una metamorfosi dalla carne all’acciaio in un passaggio verso il non-umano o, appunto, il super-umano.
La sopravvivenza storica di Superman come figura in cui identificarsi, invece dei suoi contemporanei totalitaristi europei, può essere dovuta – oltre che alla vittoria bellica e culturale americana – al fatto che egli era sempre in grado di cambiarsi e di ritornare un uomo normale, di carne e sangue, senza essere avvinghiato a una adesione totalizzante e definitiva.
È anche vero che Superman è diverso da tutti gli altri supereroi.
Egli torna normale ma solo per finzione: quando è Clark Kent nasconde la sua ultra-umanità, senza sopprimerla o eliminarla. Verso la fine del film Kill Bill: Volume II di Quentin Tarantino, Bill, il personaggio interpretato da David Carradine, sta parlando alla Sposa, interpretata da Uma Thurman, a proposito di quella che lui chiama “la filosofia dei supereroi”. Bill spiega che Superman è diverso da tutti gli altri supereroi proprio a causa del suo costume. Mentre gli altri devono vestirsi da supereroi per poterlo diventare, Superman è il solo a essere genuino quando è in costume mentre è “in maschera” quando finge di essere Clark Kent. Il suo vestito non è un costume perché, spiega Bill, Superman è nato Superman.
Rimane da capire come e se gli autori di Superman, Siegel e Shuster, siano stati contaminati dal manifesto di Flagg. Entrambi sono nati nel 1914, quindi erano bambini durante i fatti della Prima guerra mondiale. Non sono al momento in grado di dimostrare che il loro riferimento iconografico sia esplicitamente Flagg. Possiamo tuttavia ipotizzare che data sia l’estensione quantitativa, in termini di tiratura, dei manifesti di propaganda, sia l’influenza che molti ebbero nella cultura popolare americana (Cfr. Gibelli, 2010 e Ginzburg, 2015), che questo legame si sia creato fortuitamente.
Non mi risulta inoltre che Siegel e Shuster abbiano mai dichiarato da dove fosse derivata l’idea del gesto del loro eroe. In attesa di proseguire l’approfondimento in tal senso non mi resta quindi che ipotizzare che, come nel caso del “dito puntato”, il gesto del togliersi l’abito sia entrato in qualche modo nella cultura popolare e da lì sia stato inconsapevolmente prelevato.
Un doppio guardaroba [↑]
Le tre star del fumetto supereroico sono caratterizzante da una doppia personalità. Superman, Batman e l’Uomo Ragno hanno una vita privata completamente scollegata dalle loro azioni pubbliche. Nella sua vita quotidiana Superman è Clark Kent, un giornalista tutto sommato mediocre. L’alter ego dell’Uomo Ragno è un giovane nerd delle scuole superiori chiamato Peter Parker.
Considerando i criteri di virilità, il contrasto tra le due identità, il supereroe e la sua controparte civile, è massimo. Rispetto a questi modelli, l’alias di Batman, il miliardario Bruce Wayne, è l’unico che può essere considerato un’eccezione: ricco, bello, scienziato brillante e imprenditore capace. A parte questo, nessuno dei tre è sposato, tutti e tre sono condannati a essere dei solitari e a soffrire della mancanza di relazioni tradizionali.
La mascolinità dei supereroi sembra escludere esplicitamente l’amore, la vita familiare, la dolcezza. La super-umanità si fonda in un certo senso su una deficienza: il superuomo per essere tale non deve possedere legami stabili. La virilità eterosessuale non rientra in questo modello: i nostri tre esempi vivono una vita perlopiù monastica, in astinenza, e parte della suspense narrativa è imperniata proprio attorno ai conflitti tra il desiderio di essere normali e le responsabilità associate al possesso di super poteri. Come la voce narrante spiega al lettore alla fine della prima storia dell’Uomo Ragno nel 1962: «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità».
La frase (sotto in grassetto) è probabilmente apparsa per la prima volta l’8 maggio 1793 durante la Rivoluzione francese, all’interno della Collection Générale des Décrets Rendus par la Convention Nationale: «Les Représentans du peuple se rendront à leur destination, investis de la plus haute confiance et de pouvoirs illimités. Ils vont déployer un grand caractère. Ils doivent envisager qu’une grande responsabilité est la suite inséparable d’un grand pouvoir. Ce sera à leur énergie, à leur courage, et sur-tout à leur prudence, qu’ils devront leur succès et leur gloire».
L’atto di cambiarsi d’abito qui osservato non è collegato ad alcuna formalità di etichetta, come sarebbe indossare un abito elegante a una cerimonia, né ad alcuna esigenza pratica, come utilizzare indumenti tecnici per svolgere attività sportive. Il cambiamento d’abito è esclusivamente vettore per la trasformazione della personalità: trascina con sé un nome diverso, diversi amici e diversi nemici – che talvolta si intrecciano e si confondono rispetto alla versione civile del supereroe, per aumentare gli escamotage narrativi disponibili –, con un lavoro differente e un modo di comportarsi spesso completamente diverso.
Il gesto che Superman ha reso famoso – tanto da essere stato codificato in una sorta di iconografia di Superman con schiere di epigoni (Fig. 4) – rappresenta l’atto di togliersi la camicia rivelando la S triangolare della veste. Non si scorge pelle nuda sotto il vestito perché non c’è spazio per alcun uomo reale: il gesto rivela un altro costume, in una sorta di stratificazione di livelli sovrapposti di identità che si fanno e si disfano in continuazione. Quando Superman interpreta Clark Kent indossa un’abito grigio, per nulla appariscente, con una camicia bianca e una cravatta. I suoi occhiali rivelano la presenza di un comune difetto fisico ma svolgono anche la funzione di maschera, come quella già citata di Zorro, coprendo il volto e occultandone in parte i lineamenti.
Il costume da supereroe, per contrasto, è di un rosso-blu acceso, con una grande mantello che ondeggia come una bandiera alle spalle. Il grande simbolo sul petto attira l’attenzione, come un marchio della moda. L’uso dei colori richiama quello della bandiera americana, come nelle palette di Flagg. Superman è alla stregua di un marine o, più in generale, rappresenta il modello comportamentale (e virile) al quale un qualsiasi buon americano dovrebbe rifarsi: l’uomo pronto a tutto pur di salvare gli altri.

Corazze e costumi [↑]
I costumi dei supereroi sono certamente invenzioni degli autori dei fumetti ma si riferiscono a una tradizione legata all’aspetto assunto da guerrieri e sportivi nel corso della storia. Il costume di Superman e quello di Batman sono a prova di proiettile, pertanto la loro funzione è pari a quella di un’armatura. La loro forma ricorda la lorica musculata dell’esercito romano, che riproduceva i muscoli del petto (Fig. 5).
Rispetto a Superman, Batman e l’Uomo Ragno hanno in più anche l’elmo, eredità antica che potrebbe ricordare, tra i tanti, quello che riproduceva le fattezze di Alessandro il Grande e che veniva indossato durante le parate (Fig. 6) e svolgeva diverse funzioni: celava l’identità dei singoli, creava un esercito di cloni di Alessandro e, forse, fungeva da gorgoneion per impaurire e scacciare i nemici.



Le armature imperiali romane erano già state riprese durante il Rinascimento, ad esempio dalle corazze di Enrico II di Francia, caratteristiche per le balze elaborate che costruivano una teoria di muscoli per conferire un fiero portamento virile. La maschera, gli stivali e il perizoma ricordano invece l’abbigliamento dei morituri, i gladiatori che come i supereroi svolgono una professione a rischio, al confine tra l’attività sportiva e quella paramilitare (Fliegel, 1999) (fig. 7).
Nonostante il costume di questi supereroi sia ispirato a modelli storici, esso è unico e di conseguenza non può essere un’uniforme: nonostante ciò, permette le libertà implicite connesse all’utilizzo di un’uniforme. Una persona in uniforme è infatti socialmente autorizzata a compiere azioni che sono precluse alle altre persone: investigare, interrogare, arrestare o persino in certi casi aggredire e sparare.
Gli stemmi sui costumi non sono quindi da considerarsi alla stegua di meri pittogrammi, come potrebbero essere quelli su un capo d’abbigliamento, ma svolgono piuttosto la funzione di distintivi come quelli in uso presso le forze dell’ordine che identificano colui che li indossa come una persona con un compito speciale o una missione da compiere.
Ecco, quindi, che la maschera del supereroe non è progettata solamente per celare la vera identità, ma anche per conferire autorevolezza, forse persino autorità. Questi costumi, rispetto alle uniformi militari dalla Prima guerra mondiale in avanti, svolgono la funzione opposta a quella di camuffarsi: vogliono attirare l’attenzione. L’eroe, del resto, non vuole né può nascondersi (la paura non rientra nei tratti virili): è invece una persona speciale che si deve distinguere a testa alta tra la moltitudine.
Rientra invece nelle forme di camuffaggio l’abbigliamento civile indossato dal supereroe. Questi abiti, indossati dall’alter ego “normale”, ricordano altri tipi di mascheramenti, le cui tracce si trovano nella letteratura epica, come il cappello magico di Sigfrido che gli permette di diventare invisibile all’occorrenza. Indossare un abito grigio in ufficio, jeans e t-shirt a scuola oppure uno smoking durante una serata di gala, permette di non dare nell’occhio, una sorta di metafora del diventare invisibili con un processo di omologazione. Non è il costume quindi a fungere da uniforme, ma sono gli abiti civili, sorta di equalizzatore che allinea tutte le persone sullo stesso piano (Fussel, 2003).
Osservando la storia degli eroi maschili nella tradizione occidentale, è possibile individuare moltissimi esempi di eroi per i quali il cambiamento d’abito era una parte fondamentale del proprio ruolo. Achille, ancora ragazzo – si noti il parallelo col bambino di Kealey, con una virilità per definizione ancora incompiuta che gli permette di evitare di prendersi le proprie responsabilità –, si veste da donna per fuggire al servizio militare.
Lo stesso Achille, giunto a Troia, prima di poter tornare in battaglia dovrà aspettare una nuova armatura dopo che la sua, prestata all’amico Patroclo, era stata raccolta da Ettore: senza l’abito adatto nemmeno un guerriero del calibro di Achille può compiere le azioni richieste dal suo ruolo.
Odisseo ritorna a casa e si traveste da mendicante per infiltrarsi nella sua casa e scoprire che la moglie Penelope (oltre che il trono) era insidiata dai Proci: questo travestimento, come sappiamo, verrà poi abbandonato per compiere le azioni degne del vero uomo che è Ulisse, per il quale il nascondimento è solo una fase temporanea. Ercole era forte quando indossava la pelle di leone e – come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi – fu una veste intrisa del sangue avvelenato del centauro Nesso, indossata per amore – in un passaggio dalla sfera guerriera a quella intima –, a ucciderlo.
I mitici guerrieri delle leggende nordiche erano noti come berserker, che letteralmente significa “coloro che indossano pelli d’orso”: il guerriero berserker non era definito dall’etnia, dalla lingua, dalla tecnica di combattimento o dalla sua invulnerabilità, ma dal suo abbigliamento. In un certo senso, anche i capelli di Sansone sono una sorta di maschera che lo lascia debole e inerme quando questi gli vengono tagliati da Dalila.
Thomas Edward Lawrence, il quale tra l’altro – in qualità di spia – aveva moltissimi alias (tra tutti il celebre Lawrence d’Arabia) e altrettanti travestimenti, ebbe successo nell’organizzare la rivolta araba anche grazie alla sua intuizione di indossare costumi locali, che gli permisero di assumere autenticità etnica. Risulta quindi evidente il fatto che il topos del cambiamento d’abito funzionale al compiere azioni extra-ordinarie non è una strategia narrativa inusuale.
Ciò che si può ulteriormente osservare è che gli esempi storici e letterari del cambio d’abito come espressione di virilità e superumanità avvengono, nella maggior parte dei casi, nel contesto di una battaglia di qualche genere. Uomo e superuomo sono quindi identificati come guerrieri o lottatori, e portano con loro un certo quantitativo di violenza e antagonismo. Indossare una maschera o un costume ricorda la vestizione del cavaliere o il body-painting sui volti e suoi corpi di guerrieri di culture diverse, come gli indiani del nord America o i Maori della Nuova Zelanda, ma anche i tatuaggi dei moderni hooligan e delle bande criminali di strada.
L’abito fa il monaco [↑]
Mutare d’abito permette di compiere azioni che gli abiti civili, come segno di aderenza a una comunità, non consentirebbero. Ecco perché il lupo mannaro deve assumere una forma mostruosa prima di divorare le proprie vittime: non è concesso alle creature umane il cannibalismo, nemmeno nella finzione narrativa.
Infrangere così profondamente le leggi degli uomini deve in qualche modo essere giustificato da una perdita, almeno temporanea, di umanità. Indossare l’abito della bestia, ammiccando allo stato selvaggio dell’homo homini lupus, permette di ignorare o di rinnegare anche nell’immagine quelle leggi e quella civiltà che invece l’uomo, in quanto creatura evoluta e razionale, deve considerare proprie e imprescindibili.
Il supereroe non è sempre “super”: gli è sufficiente smettere i panni dell’eroe per ritornare ad essere una persona qualsiasi.
Anzi, è parte integrante della sua missione dimostrare di saper rinunciare a questi poteri: la sua umanità e la sua salvezza in qualità di creatura sociale stanno proprio nel sapersi trasformarsi in entrambe le direzioni. Se non ne fosse in grado sarebbe dannato e non potrebbe mai più essere reintegrato nella società: diventerebbe un mostro, un reietto, non sarebbe altro che una creatura consumata dal proprio potere.
Il supereroe è pertanto segnato e contraddistinto dall’atto di cambiamento: il suo è un perenne stato larvale, un processo a metà tra due identità, senza mai poter essere perfettamente o esclusivamente una o l’altra. Ecco perché il gesto del togliersi l’abito è un gesto a metà, sia nel marine che in Superman.
Si tratta di un istante dinamico cristallizzato, un momento di transizione tra una condizione e l’altra, tra due abiti diversi. L’eroe controlla il cambiamento di identità a piacere senza mai perdere controllo di questo processo. Restare perennemente nella condizione “super” è destino dei cattivi, indice di un’adesione totale e di una redenzione impossibile.
Non poter tornare indietro è segno di fallimento sulla strada del diventare uomo. Quando nel Ritorno dello Jedi, il terzo film della trilogia di Guerre Stellari di George Lucas, viene rimossa la maschera di Darth Vader, si rivela un volto deformato: pallido, senza capelli, Darth Vader appare come un essere umano incompiuto, che muore provando invano a cambiarsi d’abito (McCarty, 1999). Il Goblin, arcinemico dell’Uomo Ragno sin dall’Amazing Spider-Man numero 14, non riesce a controllare il suo io malvagio e ne è costantemente dominato.
È significativo il fatto che la maschera del Goblin ricordi esempi africani o delle isole del Pacifico e che alla fine del film Spider-Man I tale maschera venga collocata in una collezione tribale (Fig. 8). Da un punto di vista eurocentrico, le maschere non europee sembrano simbolizzare un disordinato e pericoloso passaggio lontano da forme sociali civili e ordinate. È il lato oscuro della Forza che si coniuga alla paura dell’Altro: il malvagio si distingue persino nell’abbigliamento.


Il Joker, uno dei più famosi e interessanti avversarsi di Batman, apparso fin dal primo numero del fumetto, non può cambiarsi d’abito. Joker è sempre Joker. Così come Due Facce, antagonista di Batman inventato nel 1942, il quale peraltro mostra la sua ambiguità in maniera nettamente fisica (Fig. 9), con la parte sinistra del corpo (e dello spirito) corrotta e cattiva.
Osserviamo, inoltre, che Due Facce continua a far roteare una moneta, mentre l’arma letale del Joker è un mazzo di carte, taglienti come rasoi. Sia la moneta sia le carte sono simboli del doppio e della casualità: il recto è inseparabile dal verso, due realtà che si contraddistinguono per essere diverse ma unite. Il cambiamento tra i due lati è incontrollabile e conduce a un effetto di sdoppiamento di personalità come quello del dottor Jekyll e di Mr. Hyde.
Il costume trasforma una violenza selvaggia in potere giudiziale ed esecutivo. La maschera consente la violenza nel nome di un bene superiore. Questa forma di violenza può essere intensificata o interrotta a seconda delle esigenze della comunità, al mutare delle situazioni. Il crimine viene sconfitto, la guerra termina: l’eroe deve potersi cambiare nuovamente d’abito, tornare a integrarsi. In questo sta la sua integrità morale: nel suo essere eroe puro, nel sacrificarsi.
Una scheggia impazzita incontrollabile farebbe solamente paura, darebbe vita a un mostro asociale, come un reduce di guerra che non riesce a tornare civile e miete vittime sparando con un mitragliatore tra la folla.
Il supereroe invece mantiene sotto controllo il suo cambiamento di identità.
Del resto, l’uomo ideale – l’adulto maturo e socialmente inserito – non si affida alla fortuna delle carte o all’esito di una moneta lanciata. Cambia quando la situazione lo richiede e ha – o mostra di avere – il pieno controllo della situazione. Non è l’Invincibile Hulk, forte ma senza alcun controllo: è piuttosto come James Bond, in grado di modulare nelle giuste dosi charme e violenza. È il marine nel cuore di ogni americano: pronto all’azione quando la situazione lo richiede, ma che rientra dalla guerra e si ricongiunge senza strappi ai propri cari.
Anche ai tempi della propaganda il nemico era un mostro: tra gli obiettivi vi era quello di fornire alla popolazione un volto da odiare e temere, contro il quale riversare ogni rancore. I tedeschi sono gli Unni di Flagg ma appaiono, nel manifesto di Harry R. Hopps (Fig. 10) stereotipati nell’elmo appuntito – e probabilmente anche nella foggia teutonica dei baffi –, mutati in una razza mostruosa antropomorfa, un gradino più in basso rispetto all’umanità – anglosassone – civilizzata e progredita.
Le parole Kultur, collocata su una mazza insanguinata e Militarism, posta sull’elmo, suggeriscono metodi barbari e un’ideologia perversa. Il mostro tedesco si lascia alle spalle un’Europa in rovine e minaccia di raggiungere l’America, trascinando con sé una giovane donna impotente. La ragazza rappresenta metaforicamente la Libertà: una libertà violata e in pericolo.
Il manifesto invita pertanto ad arruolarsi per fermare questo mostro fuori da ogni controllo, prima che sia troppo tardi. La trasformazione del Male che viene dalla Germania è irreversibile: non ha nemmeno un abito da togliersi o da rimettersi perché è nudo e perduto nel suo stato bestiale, e la sola igiene del mondo è la guerra.

Il sogno americano [↑]
L’eroe è dunque costretto in un’esistenza socialmente incompleta, imperfetta, in continuo divenire. La sua vita può essere intesa come un sacrificio per un bene comune e superiore. Come un sacerdote, egli non ha una famiglia, non ha una sessualità esplicita, si “limita” a tendere verso ideali più elevati. La virilità compiuta negli esempi analizzati è quindi per sua natura astratta, lontana dalle contingenze della vita quotidiana: è, infatti, extra-ordinaria.
Al posto dell’uomo comune, l’eroe offre l’immagine di una maschilità idealizzata. Non pare esserci un precedente iconografico a Flagg. Il togliersi gli abiti è un gesto della nostra quotidianità, rappresentato nella storia dell’arte, ma non con la funzione di trasformazione qui discussa.
Ercole viene raffigurato con la pelle di leone addosso (Fig. 11), ma mai nello stato intermedio, nell’atto di cambiarsi . La trasformazione per eccellenza, la Trasfigurazione di Cristo, viene raccontata nei Vangeli come un divenire: «Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti,bianchissime» (Marco 9, 2-3), ma le fonti iconografiche mostrano esclusivamente il momento conclusivo del passaggio, con le vesti di Cristo già bianche.
Del resto Cristo non si “spoglia” in senso letterale, le sue vesti si limitano a cambiare colore. Con la Trasfigurazione Cristo viene riconosciuto da Dio come suo figlio, in un certo senso “diventa” creatura divina o, piuttosto, ne ottiene certificazione.
L’esempio di Cristo è seguito anche da Gandalf (ed entrambi, come i supereroi, vivono una vita senza l’affetto e i legami di una famiglia tradizionale), il celebre mago del Signore degli Anelli di Tolkien, che cambia il colore dell’abito, da grigio a bianco, quando assurge a un nuovo e superiore livello di esistenza.

Il cambiarsi d’abito è quindi senz’altro parte integrante di un processo di trasformazione. Gli esempi letterari sono moltissimi, meno quelli iconografici, soprattutto se limitati a quelli che illustrano l’atto nel suo divenire. Si potrebbe quindi concludere che è l’abito, indossato durante la giusta occasione – e sorvolando, come detto sopra, il ruolo funzionale o formale dell’abbigliamento –, a fare di un uomo un vero uomo. Sia nel caso di un uomo normale sia nel caso di un super-uomo.
Cambiarsi d’abito significa dunque accettare di compiere una missione, di prendersi delle responsabilità; significa assumersi consapevolmente un dovere. Da un certo punto di vista la metafora torna a ripegarsi sulla vita di ciascuno essere umano. Come una larva lascia la crisalide e si evolve, così l’individuo assume il ruolo sociale che gli spetta, indossa l’abito adeguato e diventa consapevolmente e inesorabilmente uomo.
Si potrebbe concludere sostenendo che nelle vicende di Superman, l’elemento più interessante della storia non sia Superman, quanto piuttosto Clark Kent. Clark Kent porta orgogliosamente con sé l’idea che ciascuno di noi, costretto nella noia di una vita ordinaria, possa in qualsiasi momento strapparsi di dosso la camicia e gettarsi nella mischia per salvare il mondo.
Questa credo sia la connessione più potente tra il marine di Flagg e Superman: entrambi rappresentano visivamente la vera natura del sogno americano, la spinta verso un’elevazione personale, verso un successo clamoroso, una vittoria senza compromessi. Il self-made Superman.
Bibliografia [↑]
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