Il manifesto raggiunse l’apice della sua centralità come mezzo di comunicazione durante gli anni della Prima guerra mondiale.

Le tecnologie di stampa si erano sviluppate rapidamente nella seconda metà dell’Ottocento, consentendo l’uso dei colori e l’adozione dei grandi formati murali, mentre altri strumenti di comunicazione di massa, come la radio, non si erano ancora sufficientemente consolidati e restarono pertanto, per il momento, esclusivamente relegati a margine.

Lo scoppio della Grande guerra creò necessità che si tradussero in obiettivi tangibili di comunicazione, tra i quali ricordiamo il reclutamento dei soldati, la raccolta di fondi per sostenere finanziariamente lo sforzo bellico e, più in generale, il mantenimento di un supporto da parte della popolazione civile nei confronti di un conflitto che, quando scoppiò nell’estate del 1914, si pensava che sarebbe terminato entro la fine dell’anno. 

Per raggiungere queste molteplici finalità i governi fecero affidamento sul manifesto come principale mezzo di propaganda e persuasione visiva, declinando spesso i medesimi temi e soggetti su cartoline e francobolli, strumenti necessari – e quindi ampiamente utilizzati – per mantenere contatti e relazioni a distanza, funzionali all’edificazione di un’immagine coordinata solida e sinergica.

Milioni di manifesti vennero affissi sui cartelloni e sui muri di tutte le città d’Europa e ognuno di questi subiva una rigida procedura di controllo da parte delle agenzie governative sia nel contenuto sia nello stile, in modo che il messaggio trasmesso fosse in grado al contempo di ingannare l’osservatore, censurando la verità dei fatti che avvenivano al fronte, ma anche di motivarlo, esaltando l’identità nazionale e tranquillizzandolo sul buon esito del conflitto.

Le esigenze di una comunicazione di propaganda, mirata a rivolgersi alla più ampia porzione di popolazione possibile, arrestarono bruscamente tre decadi di sperimentazioni stilistiche iniziate con l’Art Nouveau e contaminate dal fascino esotico per il japonisme, orientandosi piuttosto verso più convenzionali rappresentazioni realistiche. La ricerca di un linguaggio grafico sintetico e astratto s’interruppe, lasciando il campo alla tradizione pittorica accademica, evidente soprattutto nel ritorno alla mimesis e alla modellazione.

Questo fenomeno, tuttavia, non si verificò omogeneamente in tutte le nazioni. Nell’Impero Britannico, ad esempio, i manifesti venivano sovente illustrati all’interno delle stesse stamperie nelle quali questi erano poi riprodotti, creando una sovrapposizione di competenze con un conseguente abbassamento della qualità media osservabile. In Italia e in Francia, invece, i compiti restarono separati e un notevole contributo giunse anche dagli artisti delle belle arti, dando vita a una categoria di manifesti che in parte trattennero alcuni valori artistici.

In Germania e negli Stati Uniti infine, le due potenze che dimostrarono una maggior consapevolezza circa la forza della comunicazione e che di conseguenza si rivelarono maggiormente attente ai linguaggi della propaganda, la realizzazione dei manifesti venne commissionata ai professionisti della grafica pubblicitaria, creando di conseguenza spazi e opportunità che in alcuni casi portarono persino ad un certo grado di sperimentazione.

Giungendo al conflitto con livelli di preparazione disomogenei, le varie potenze coinvolte impostarono diversamente la propria strategia di comunicazione, spesso rincorrendo priorità dettate dalle esigenze contingenti ma talvolta seguendo anche un progetto orientato al medio periodo.

L’Impero Britannico []

All’inizio della guerra l’Impero Britannico disponeva dell’esercito meno strutturato tra tutte le potenze europee, con un totale di circa 160.000 unità. Ciò era principalmente dovuto al fatto che gli inglesi fossero l’unica nazione nel conflitto senza una leva militare obbligatoria; per questo motivo le autorità britanniche dovettero immediatamente confrontarsi con la necessità di incoraggiare un’estesa partecipazione volontaria.

Durante i diciotto mesi che precedettero l’istituzione della leva, il governo britannico si affidò ai manifesti per incoraggiare il più ampio numero possibile di arruolabili ad unirsi ai combattimenti. Vennero di conseguenza realizzati centinaia di manifesti, sotto l’attenta sorveglianza del Parliamentary Recruiting Committee (PRC), ottenendo un successo considerevole: più di 2,5 milioni di cittadini britannici tra l’agosto del 1914 e il gennaio del 1916 si unirono spontaneamente alle forze militari. Questi numeri apparentemente ingenti non furono tuttavia sufficienti a nutrire la vorace macchina di guerra al fronte, rendendo così la coscrizione obbligatoria una tappa fondamentale.

Tra i manifesti inglesi ideati per sostenere il reclutamento, spiccano quelli che adottarono un approccio diretto, ai limiti del comando imperativo, veicolati tramite figure pubbliche note e rispettate. Il più memorabile di questa serie è senza dubbio il manifesto del 1914 realizzato da Alfred Leete (1882-1933), nel quale viene rappresentato Lord Kitchener, Segretario di Stato per la guerra e supervisore ai reclutamenti (Fig. 1). Leete aveva originariamente realizzato quest’immagine per la copertina del settembre 1914 del mensile London Opinion e la riadattò successivamente su richiesta del PRC, che ne aveva intuito le potenzialità propagandistiche. 

Manifesto Alfred Leete Britons Join your Country’s Army 1914
Fig. 1 – Alfred Leete, Britons, Join your Country’s Army!, 1914 (Stampatore: Victoria House Printing, Londra; Stampa rilievografica e cromolitografica su carta, 511×746 mm; Imperial War Museum, Londra).

Lord Kitchener era talmente noto presso l’opinione pubblica inglese coeva che fu sufficiente ritrarlo, senza doverne nemmeno precisare il nome: la sua figura si integrava al testo diventando elemento verbale e permettendo all’osservatore di leggere Britons [Lord Kitchener] Wants YOU (Inglesi [Lord Kitchener] vuole VOI). Con una gestualità iconograficamente vicina all’adlocutio della statuaria romana, lo scorcio accentuato del braccio destro terminante con un dito indice puntato verso l’osservatore completava l’aggancio ottico con la potenziale recluta innescato dallo sguardo penetrante di Kitchener.

Questo gesto si rivelò efficace a tal punto da diventare fondativo di un intero genere di manifesti (cfr. Figg. 8, 9 e 10) e rivelò in Leete una notevole capacità di sintesi visiva e di composizione. A un livello meno elevato si colloca invece il lettering: le incertezze e le imprecisioni evidenti nell’esecuzione dei caratteri rilevano l’imperizia di un illustratore più avvezzo al disegno – soprattutto fumettistico – che non alla tipografia.

Manifesto At the front 1915
Fig. 2 – n.c., At the front!, 1915 (Stampatore: E.S. & A. Robinson, Bristol;  Cromolitografia su carta, 500×760 mm; Library of Congress, Washington).
Manifesto Forward to Victory 1915
Fig. 3 – n.c., Forward to Victory, 1915 (Stampatore: David Allen & Sons, Harrow; Cromolitografia su carta, 490×760 mm; Library of Congress, Washington).

Un secondo tema ampiamente adottato tra i manifesti britannici mirava a raccontare il fascino della vita del soldato, rappresentando la guerra come un’avventura da romanzo d’appendice, attraverso scene di cameratismo ed eroismo. Manifesti come At the front! (Fig. 2, ma anche Forward to Victory in Fig. 3) del 1915, raccontano una fase successiva all’arruolamento, quando la recluta, trasportata in prima linea, partecipava all’azione delle truppe a cavallo bersagliate dal fuoco nemico.

Una scena seducente e movimentata, forse ispirata alla caccia al leone resa celebre dai dipinti di Eugène Delacroix (Fig. 4); un cavallo rampante viene tenuto sotto controllo con eleganza da un abile e imperturbabile cavallerizzo, restituendoci non solo l’immagine di una guerra epica e idealizzata, affascinante da vivere, ma anche di un’esperienza nella quale apprendere ad agire con altrettanto carisma e professionalità.

La composizione centrale, riquadrata, è una sorta di finestra affacciata su un altro mondo, distante ed evocativo, innocuo come un film visto al cinematografo, un luogo nel quale si desidera ardentemente entrare. Una scena di cavalleria come questa purtroppo racconta solo un frammento minuscolo e romanzato di un conflitto che visse giornate tragiche come il 1 luglio 1916, quando quasi ventimila soldati britannici persero la vita nei pressi della Somme.

Eugène Delacroix Caccia al leone 1855
Fig. 4 – Eugène Delacroix, Caccia al leone, 1855.

Per quelle potenziali reclute immuni sia alla chiamata diretta di Lord Kitchener sia al fascino dell’avventura romantica, gli spin doctor inglesi idearono uno stratagemma ancora più subdolo. Misero in atto un autentico processo di evirazione, creando manifesti di aggressione psicologica capaci di mettere in discussione il ruolo sociale e la virilità di un uomo che non aderisse con slancio alla chiamata della patria.

Nel 1915 Edward J. Kealey inaugurò il tema con il manifesto Women of Britain say ‘GO!’ (Le donne inglesi dicono ‘Andate!’, Fig. 5), col quale mirava a mettere sotto pressione mariti e padri di famiglia per farli partecipare attivamente allo sforzo bellico.

Il messaggio di Kealey faceva leva sulla tradizione delle sfere separate, nella quale ogni genere era ritenuto avere un proprio ambiente naturale di riferimento: le donne nella sfera domestica e gli uomini in quella pubblica. Questo concetto viene mostrato letteralmente: madre e figli sono abbracciati e restano a casa mentre i soldati marciano verso il fronte per compiere i doveri che il loro ruolo sociale e antropologico richiede. Il bambino piccolo, afferrando le gonne della sorella, suggerisce che gli unici uomini cui fosse concesso di restare a casa senza doversene vergognare fossero, appunto, i bambini.

Manifesto Edward J. Kealey Women of Britain say GO 1915
Fig. 5 – Edward J. Kealey, Women of Britain say ‘GO!’, 1915 (Stampatore: Hill, Siffken and Co., Londra; Cromolitografia su carta, 505×759 mm; Imperial War Museum, Londra).

Il più celebre manifesto sul tema è certamente quello realizzato da Savile Lumley (1876-1960) nel 1915, nel quale una bambina, sfogliando un sussidiario seduta sulle ginocchia del padre pone la domanda Daddy, what did YOU do in the Great War? (Papà, che cosa hai fatto TU durante la Grande Guerra?, Fig. 6). La domanda sembra scatenare il rimorso nel padre il quale immediatamente si rivolge verso l’osservatore cercando di coinvolgerlo e probabilmente di rovesciargli addosso la domanda, in una sorta di condivisione empatica mirata a mettere in guardia lo spettatore sulle conseguenze future delle sue scelte attuali. Più in basso, il bambino rinforza il rimprovero morale intriseco alla scena: giocando con i soldatini evidenzia il fatto che nonostante la giovane età il suo l’istinto virile sia già più sviluppato di quello del padre.

Questo manifesto ebbe il destino di affermarsi come una delle immagini più potenti del periodo bellico, tanto da imprimersi nella memoria di moltissime persone. Nel 1940, all’interno del saggio My Country Right or Left, George Orwell rifletteva: «Ho spesso sorriso pensando a questo manifesto di reclutamento e a tutti quegli uomini che sono stati attirati nell’esercito solamente a causa sua per poi alla fine venire comunque disprezzati dai propri figli».

Manifesto Savile Lumley Daddy what did YOU do in the Great War 1915
Fig. 6 – Savile Lumley, Daddy, what did YOU do in the Great War?, 1915 (Stampatore: Johnson, Riddle and Co., Londra; Cromolitografia su carta, 495×750 mm; Imperial War Museum, Londra).

Gli Stati Uniti d’America []

Nell’aprile del 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco degli Alleati. Nei primi anni delle ostilità si erano tenuti in disparte dedicandosi soprattutto al commercio, inviando tonnellate di munizioni e altri beni principalmente verso i cugini inglesi. Tra il 1915 e il 1917 era però cresciuta la tensione con la Germania a causa dell’intensa attività dei sottomarini tedeschi, dediti all’affondamento sistematico delle navi mercantili che trasportavano queste merci in Europa. 

Un episodio in particolare colpì l’opinione pubblica americana, tanto da essere considerato da alcuni storici casus belli per l’intervento degli Stati Uniti: l’affondamento della nave da crociera Lusitania, colpita dal sommergibile tedesco U-20 il 7 maggio 1915 al largo delle coste irlandesi. In quella tragica circostanza persero la vita tra equipaggio e passeggeri oltre mille persone, centoventi delle quali erano cittadini americani; un giornalista raccontò di «una madre con un bimbo di tre mesi stretto tra le sue braccia. Il suo volto fermo in un mezzo sorriso. La testa del bambino appoggiata sul seno di lei. Nessuno dei soccorritori provò a separarli».

Il cartellonista Frederick Spear illustrò quest’evento creando una delle immagini più coinvolgenti dell’epoca, mostrando una madre e un bambino, eterei, affondare insieme inesorabilmente verso torbide profondità e una sola parola: Enlist (Arruolatevi, Fig. 7). 

Manifesto Frederick Spear Enlist 1915-16
Fig. 7 – Frederick Spear, Enlist, 1915-16 (Stampatore: Sackett & Wilhelms, New York; Stampa fotomeccanica e rotocalcografia su carta, 570×820 mm; Library of Congress, Washington).

Nei mesi successivi al loro ingresso in guerra, gli Stati Uniti stamparono migliaia di manifesti, ricoprendo i muri di ogni cittadina americana. Nella sola città di New York il 14 aprile 1917 centinaia di volontari affissero oltre 20.000 manifesti, tappezzando letteralmente ogni superficie disponibile. Nonostante il loro ritardato ingresso in guerra, quando questa finì, l’11 novembre 1918, gli Stati Uniti avevano prodotto più manifesti di ogni altra potenza coinvolta, a dimostrazione dell’importanza da loro attribuita alla comunicazione di massa. I temi trattati dalla propaganda americana condividevano molti elementi in comune con quelli inglesi, da cui erano in parte tratti. 

L’esempio più eclatante di questo debito si evidenzia probabilmente nel manifesto di James Montgomery Flagg (1877-1960), che adottò il gesto ieratico di Leete e diede vita a quello che a ragion veduta possiamo considerare il manifesto più famoso della storia (Fig. 8). Con l’intenzione di localizzare il carisma emanato da Lord Kitchener, Flagg lo trasformò nello Zio Sam, personificazione degli Stati Uniti. Il personaggio dello Zio Sam era nato all’incirca un secolo prima; si trattava di un personaggio immaginario creato dagli addetti ai rifornimenti dell’esercito, i quali vedendo e rivedendo in continuazione le iniziali US stampate su ogni imballo, a indicare United States, impersonificarono nello Zio Sam (Uncle Sam in inglese) il governo federale americano. 

Manifesto James M. Flagg I Want You for U.S. Army 1917
Fig. 8 – James M. Flagg, I Want You for U.S. Army, 1917 (Stampatore: n.c.; Cromolitografia su carta; Library of Congress, Washington).

Le caratteristiche precise e l’abbigliamento dello Zio Sam cambiarono per decenni, lasciando come unica costante la presenza dei colori della bandiera a stelle e strisce: bianco, rosso e blu. Solamente sul finire del XIX secolo, complice l’influenza di Abrahm Lincoln, si affermò la consuetudine di raffigurare lo Zio Sam con un pizzetto bianco e con altri tratti presi dal volto del presidente.

Quando Flagg interpretò iconograficamente lo Zio Sam nel 1917, si basò in parte su questa tradizione e in parte attinse direttamente dal proprio autoritratto, probabilmente l’immagine che aveva più a portata di mano in quel momento, definendo e fissando definitivamente lo Zio Sam nell’immaginario popolare per le generazioni a venire.

Una volta terminato il manifesto, Flagg non aveva certamente idea che quell’illustrazione sarebbe stata destinata a diventare una delle più celebri nella storia americana; stampata entro la fine della guerra in oltre quattro milioni di esemplari, la sua enorme popolarità creò una schiera di epigoni, tra cui Achille Mauzan (1883-1952), che nel 1917 realizzò Fate tutti il vostro dovere! (Fig. 9), manifesto italiano, stampato nell’ampio formato macchina 70×100 cm, dedicato alla sottoscrizione pubblica del debito di guerra.

Manifesto Achille Mauzan Fate tutti il vostro dovere 1917
Fig. 9 – Achille Mauzan, Fate tutti il vostro dovere!, 1917 (Stampatore: G. Modiano & C., Milano; Cromolitografia su carta, 700×1000 mm; Library of Congress, Washington).

Nella stessa posa è raffigurata un’altra personificazione nazionale, questa volta inglese: John Bull. Creato agli inizi del XVIII secolo, John Bull non è un leader autoritario come lo Zio Sam o Lord Kitchener: rappresentava piuttosto il gentiluomo inglese di campagna, rubizzo e leggermente sovrappeso, che rincorreva l’ambizione di godersi una vita tranquilla e pacifica. John Bull indossa giacca e cilindro, i pantaloni alla zuava e un panciotto decorato con la Union Jack, la bandiera inglese. Personaggio noto e benvoluto dal pubblico oltremanica, apparve in numerose pubblicità e vignette, completando il suo lungo percorso nel 1915 facendo tappa su questo poster di arruolamento, realizzato dal PRC (fig. 10). 

Manifesto Who’s absent 1915
Fig. 10 – n.c., Who’s absent?, 1915 (Stampatore: Andrew Reid & Co., Newcastle-On-Tyne; Cromolitografia su carta, 500×740 mm; Library of Congress, Washington).

Dopo lo Zio Sam, Flagg ebbe occasione di dimostrare ulteriormente la propria capacità di abbinare uno slogan semplice ed efficace a un’immagine coinvolgente, realizzando il manifesto Tell that to the marines! (Ditelo ai marine!, Fig. 11). L’immagine mostra un uomo indignato, immediatamente pronto a spogliarsi degli abiti civili e ad arruolarsi dopo essere venuto a conoscenza delle atrocità compiute dai tedeschi, chiamati spregiativamente Huns (Unni) nel titolo del  giornale gettato con disprezzo ai suoi piedi. Flagg ripropone la tecnica di isolare una figura su uno sfondo neutro già adottata con successo con lo Zio Sam. La semplicità gestuale dell’uomo e la familiarità degli oggetti rappresentati contribuiscono a instaurare un dialogo visivo con la più ampia fascia di popolazione possibile, nel pieno rispetto delle regole della comunicazione di propaganda. 

Manifesto James M. Flagg Tell that to the marines 1918
Fig. 11 – James M. Flagg, Tell that to the marines!, 1918 (Stampatore: n.c.; Offset su carta, 762×1017 mm; Library of Congress, Washington).

Etichettare negativamente il nemico è una soluzione che non rimarrà certamente confinata al solo utilizzo di un nome ma si estenderà piuttosto, anzi principalmente, anche alla creazione di un immaginario visivo, con l’obiettivo di fornire un volto a un avversario da odiare, temere e contro il quale riversare ogni rancore. Nel manifesto di Harry R. Hopps (1869-1937) il popolo tedesco, stereotipato nell’elmo appuntito e probabilmente anche nella foggia dei baffi, diventa una razza mostruosa antropomorfa, un gradino più in basso rispetto all’umanità civilizzata e progredita (Fig. 12): le parole Kultur, collocata su una mazza insanguinata, e Militarism, posta sull’elmo, suggeriscono metodi barbari e un’ideologia perversa. Il mostro tedesco si lascia alle spalle un’Europa in rovine e minaccia di raggiungere l’America, trascinando con sé una giovane donna impotente. 

La ragazza tra le braccia del mostro potrebbe rappresentare metaforicamente la Libertà oppure essere un riferimento allo “Stupro del Belgio”, espressione figurata riferita convenzionalmente all’invasione tedesca del Belgio avvenuta nel 1914 e ai relativi crimini di guerra lì commessi. Il manifesto invita pertanto ad arruolarsi per fermare questo mostro fuori da ogni controllo, prima che sia troppo tardi.

Manifesto Harry R. Hopps Destroy this Mad Brute 1917
Fig. 12 – Harry R. Hopps, Destroy this Mad Brute, 1917 (Stampatore: n.c.; Cromolitografia su carta, 710×1006 mm; Library of Congress, Washington).

Un approccio completamente diverso fu quello del celebre illustratore Howard Chandler Christy (1873-1952), il quale scelse ruffianamente di avvalersi di testimonial femminili – anticipando un genere di linguaggio pubblicitario che di lì a poco sarebbe esploso – per restituire l’illusione che la guerra non fosse altro che una splendida avventura oltreoceano, condivisa peraltro con una piacevole compagnia dell’altro sesso. 

Christy, che aveva prestato servizio durante la guerra ispano-americana del 1898, aveva dato vita alla Christy Girl, versione americana delle ragazze eleganti e maliziose che popolavano le affiche durante la Belle Epoque.

Il maggior intervento della censura morale negli Stati Uniti aveva fino ad allora impedito a Christy di rendere apertamente sexy queste pin-up illustrate, ma la necessità di incrementare gli arruolamenti rilassò i costumi agevolando un salto in avanti verso le più disinibite controparti del Vecchio continente. 

In Gee!! I Wish I Were a Man. I’d join the navy (Caspita!! Vorrei essere un uomo. Mi unirei alla marina, Fig. 13) e in I want you, for the navy (Voglio te, per la marina, Fig. 14), manifesti di reclutamento per la marina militare, le giovani protagoniste svolgono almeno tre funzioni principali.

Da un lato, al pari del bambino che giocava coi soldatini di Lumley, sfidano i propri coetanei a dimostrare, attraverso l’arruolamento, di valere esattamente quanto loro. Dall’altro, travestendosi con una divisa militare, indossata con o senza scollatura, suggeriscono in qualche modo che la disponibilità di donne giovani e affascinanti sia parte integrante nell’esperienza complessiva del servizio militare.

Infine, terza funzione, trattandosi di belle ragazze su un manifesto, semplicemente attirano lo sguardo della recluta potenziale probabilmente più di quanto non riescano un’allegoria colta o un personaggio militare dal fiero cipiglio. La ragazza che promette “Voglio te, pausa, per la marina”, è una versione dello Zio Sam talmente seducente e maliziosa che non ha nemmeno bisogno di puntare il dito per attirare l’attenzione. Anzi, la sua è una posa rilassata, vacanziera, con le mani in tasca. Il linguaggio del corpo ci trasmette sicurezza e tranquillità, la guerra torna a essere un parco di divertimenti lontano dalla routine quotidiana.

La presenza del mare, tòpos dell’avventura esotica idealizzata, viene evocata dalla brezza che scompiglia i capelli della ragazza e che agita, ondulandole, le lettere di cui è composto il messaggio testuale, creando una sintonia e una coerenza visiva che non era stata possibile nell’Impero Britannico, dove i manifesti venivano realizzati da profani.

Manifesto Howard C. Christy Gee I Wish I Were a Man 1917
Fig. 13 – Howard C. Christy, Gee!! I Wish I Were a Man, 1917 (Stampatore: n.c.; Cromolitografia su carta, 687×1045 mm; Imperial War Museum, Londra).
Manifesto Howard C. Christy I Want You for the Navy 1917
Fig. 14 – Howard C. Christy, I Want You for the Navy, 1917 (Stampatore: The Colorplate Engraving Company, New York; Cromolitografia su carta, 360×280 mm; Library of Congress, Washington).

La Francia []

La Francia dal canto suo, pur non avvalendosi di professionisti dell’illustrazione o della comunicazione pubblicitaria, raggiunse un maggior livello qualitativo grazie al supporto di pittori esperti, alcuni dei quali dediti specialmente alla cronaca visiva dei fatti di guerra. La relazione tra design grafico e belle arti condusse verso una maggior adozione di immagini allegoriche e di composizioni sofisticate, anche con precisi riferimenti alla storia dell’arte.

Lucien Jonas (1880-1947), pittore militare con all’attivo centinaia di opere e migliaia di disegni basati sulla sua diretta esperienza al fronte, illustrò l’affiche per la sesta sottoscrizione pubblica del debito di guerra (Fig. 15). In quest’immagine, una Marianne alata, nobile personificazione della Francia, fluttua sopra le teste di un gruppo di soldati determinati che si apprestano a caricare. La composizione ricorda il celebre dipinto del già citato Delacroix, La Libertà guida il popolo, del 1830, nel quale un’energica Marianne guidava i cittadini rivoltosi in battaglia (Fig. 16).

In Jonas, la giovane al posto del tricolore francese regge una cornucopia, colma dei proventi della sottoscrizione, e ne rovescia il contenuto sui soldati, motivandoli e spronandoli. Risulta quindi visivamente evidente l’apporto che la popolazione civile poteva fornire per aiutare i propri connazionali impegnati al fronte, una conferma che un piccolo sforzo economico del singolo avrebbe potuto dare un grande contributo al benessere di tutti e alla vittoria. 

Manifesto Lucien Jonas Emprunt de la Liberation 1918
Fig. 15 – Lucien Jonas, Emprunt de la Liberation, 1918 (Stampatore: Devambez, Parigi; Cromolitografia su carta, 790×1200 mm; Library of Congress, Washington).
Eugène Delacroix La libertà guida il popolo 1830
Liberty Leading the People. 1830. Oil on canvas, 260 x 325 cm.

Altrettanto originale, rispetto alla produzione internazionale di manifesti bellici, è la scelta del pittore e illustratore francese Abel Faivre (1867-1945) di mostrare un non tanto simbolico Coq d’Or aggredire un malcapitato soldato tedesco (Fig. 17). Il gallo, utilizzato negli stemmi militari ed emblema francese per eccellenza, dimostra vigore e spirito battagliero ma pare essere soprattutto un modo particolarmente elegante di chiedere ai cittadini francesi un contributo economico per sconfiggere il nemico, in denaro sonante, nel nome dei principi rivoluzionari Liberté, Egalité, Fraternité. Faivre fece una scelta coraggiosa, probabilmente unica per questo periodo, raffigurando un soldato nemico senza connotarlo con attributi mostruosi.

Manifesto Abel Faivre Pour la France Versez Votre Or 1915
Fig. 17 – Abel Faivre, Pour la France Versez Votre Or, 1915 (Stampatore: Devambez, Parigi; Cromolitografia su carta, 800×1800 mm; Library of Congress, Washington).

La Germania []

La situazione in Germania, relativamente al tema dei manifesti, presentava alcune peculiarità. Innanzi tutto, la categoria professionale dei designer, chiamata a realizzare la comunicazione di propaganda, conosceva molto bene la produzione Alleata: i manifesti delle potenze nemiche venivano raccolti sulla rivista Das Plakat che venne pubblicata regolarmente durante tutta la guerra, mentre nel 1915 a Berlino si tenne addirittura una mostra dedicata ai poster di reclutamento britannici. 

Inoltre, avendo un numeroso esercito coscritto, la Germania non ebbe la necessità pressante di reclutare nuove leve. Optò pertanto per utilizzare il manifesto come strumento per persuadare i suoi cittadini a prestare denaro sottoscrivendo gli svariati debiti di guerra necessari al finanziamento economico del conflitto. Infine, le agenzie governative tedesche responsabili della comunicazione non pretesero, come il PRC in Inghilterra, che gli illustratori si allontanassero dallo stile sintetico moderno raggiunto dalla comunicazione visiva coeva, lasciando pertanto una maggior libertà d’espressione.

La maniera Sachplakat (letteralmente “manifesto oggetto”), adottata dagli artisti grafici nei primi anni del Novecento prima a Berlino e poi a Parigi, con la sua estrema riduzione astratta delle forme, si affermò come base fondante della propaganda tedesca. Designer come Lucian Bernhard (1883-1972), che erano saliti ai massimi ranghi della carriera pubblicitaria, ebbero occasione di distinguersi anche nella creazione di manifesti di guerra applicando le medesime intuizioni formali.

Bernhard realizzò numerosi progetti, compreso un notevole manifesto dedicato al debito di guerra (Fig. 18) nel quale sono evidenti alcuni elementi peculiari del manifesto oggetto: il pugno in armatura che rappresenta il prodotto, ovvero la forza militare tedesca, è collocato contro uno sfondo neutro e accompagnato semplicemente da uno slogan, senza ulteriori decorazioni. Il lettering, tuttavia, è un’altra cosa rispetto allo stile piatto e neutrale che aveva reso popolare il movimento Sachplakat, essendo realizzato con la tipica scrittura gotica di tradizione germanica.

Manifesto Lucian Bernhard Das ist der Weg zum Frieden 1914-18
Fig. 18 – Lucian Bernhard, Das ist der Weg zum Frieden, 1914-18 (Stampatore: Dr. C. Wolf & Sohn, Monaco; Cromolitografia su carta, 470×700 mm; Library of Congress, Washington).

Del resto, al momento dello scoppio della guerra, la questione del design dei caratteri, quale indicatore dell’identità nazionale era diventato un tema alquanto dibattuto.

Lo svilupparsi del conflitto contro la Francia, il maggior antagonista europeo per la Germania e una delle nazioni, insieme ovviamente all’Italia, che aveva giocato uno dei ruoli principali nello svilupparsi della tradizione del carattere romano, aveva temporaneamente spostato l’equilibrio in favore del più tradizionale gotico.

Nei manifesti di Bernhard, il riferimento ai cavalieri medievali e l’headline Das ist der Weg zum Frieden, Die Feinde Wollen es so! (Questo è il modo per ottenere la pace, i nemici vogliono così!) si combina con un carattere Fraktur, parte di quell’ampia famiglia usata nel XV secolo da Johannes Gutenberg per la sua Bibbia, per diventare un messaggio riferito a un’identità nazionale incontaminata dall’estetica francese. In altre opere, le soluzioni raggiunte durante l’epoca del manifesto oggetto rimasero più evidenti.

U Boote Heraus! (I sommergibili sono fuori!, Fig. 19) di Hans Rudi Erdt (1883-1918), che reclamizza un film celebrativo della guerra sottomarina, mostra un ufficiale tedesco nell’atto di utilizzare un periscopio per osservare l’affondamento della nave nemica in superficie. La semplificazione astratta riesce nell’intento di distanziare l’osservatore dai dettagli più orrendi e truculenti della guerra: la mano e il volto dell’ufficiale sono illustrate con distacco, senza gradazioni tonali o modellazione, adottando i toni piatti di quello stile giapponese che era giunto in Europa attorno alla fine del secolo precedente.

Il lettering è quello tipico degli artisti Sachplakat, con caratteri distesi sull’asse orizzontale e nerissimi. Una enorme U racchiude sia il comandante del sommergibile sia la sua vittima ed è parte integrante del testo e dell’immagine: con la sua solida immanenza evoca la massa stessa del sommergibile. Anche la dimensione del manifesto è piuttosto notevole: venne infatti stampato in un formato di 94×141 cm, di molto superiore agli standard dell’epoca e sicuramente ideale per raggiungere una visibilità ancora maggiore una volta affisso. 

Manifesto Hans Rudi Erdt U Boote Heraus 1917
Fig. 19 – Hans Rudi Erdt, U Boote Heraus!, 1917 (Stampatore: Hollerbaum & Schmidt, Berlino; Cromolitografia su carta, 946×1410 mm; Imperial War Museum, Londra).

Il designer austriaco Julius Klinger (1876- 1942), che dopo aver lavorato a Berlino ed essersi contaminato nello stesso milieu di Bernhard era rientrato a Vienna allo scoppio della guerra, realizzò un originale manifesto per pubblicizzare l’ottava sottoscrizione pubblica per il debito di guerra (Fig. 20). Un mostruoso serpente morente, che ovviamente rappresenta i nemici della Germania, appare crivellato da otto frecce – una per ogni sottoscrizione – e intrappolato nel numero 8.

L’agonia della creatura che si contorce e il tratto irregolare che la disegna, ci restituiscono un’idea di inciviltà se comparati con la perfezione ed eleganza, anche simbolica, del numero e del testo, [Achte] Kriegsanlehie ([Ottavo] debito di guerra): l’obiettivo è sempre quello di dare un giudizio di valore sulla propria nazione e su quella degli avversari. L’osservatore pertanto è invitato a cogliere quanto questo ottavo finanziamento rivesti un’importanza strategica fondamentale, perché promette di essere quello che strangolerà definitivamente il barbaro nemico come un cappio al collo.

Manifesto Julius Klinger Achte Kriegsanleihe 1918
Fig. 20 – Julius Klinger, Achte Kriegsanleihe, 1918 (Stampatore: J. Weiner, Vienna; Cromolitografia su carta con rivestimento in tessuto, 630×948 mm; Imperial War Museum, Londra).

Lo stile piatto ed essenziale si fonda invece con elementi pittorici in un plakat realizzato da Ludwig Hohlwein (1874-1949) per una raccolta fondi a favore della Croce Rossa (Fig. 21), raggiungendo un delicato equilibrio tra impatto visivo e forza emotiva, secondo una cifra linguistica alla quale anche il nostro occhio è ben allenato, trattandosi di una soluzione ampiamente adottata anche in periodo di pace. Hohlwein firmerà anche Wahr Dich, Wehr Dich, Wach Auf (Proteggiti, Difenditi, Svegliati, Fig. 22) e sarà il grafico di riferimento durante la successiva propaganda nazista. Questa collaborazione gli costerà lunghi anni di oblio dal panorama dei protagonisti del manifesto di inizio Novecento, nostante il notevole contributo, sia in termini qualitativi che quantitativi.

Manifesto Ludwig Hohlwein Rote Kreuz-Sammlung 1914
Fig. 21 – Ludwig Hohlwein, Rote Kreuz-Sammlung, 1914 (Stampatore: Kunstanstalt Oscar Consée, Monaco; Cromolitografia su carta, 624×878 mm; Imperial War Museum, Londra).
Manifesto Ludwig Hohlwein Wahr Dich Wehr Dich Wach Auf 1919
Fig. 22 – Ludwig Hohlwein, Wahr Dich, Wehr Dich, Wach Auf, 1919 (Stampatore: Kunstanstalt Oscar Consée, Monaco; Cromolitografia su carta, 726×942 mm; Imperial War Museum, Londra).

Di estrema sintesi è anche il manifesto di Julius Gipkens (1883-1968) dedicato a una mostra celebrativa del 1917 – ulteriore strumento della propaganda – dove vennero esposti come trofei i velivoli catturati durante le battaglie aree (Fig. 23): un’aquila nera, la Germania, se ne sta appollaiata sulla sommità di una coccarda inglese, crivellata dai proiettili, sineddoche di un velivolo abbattuto dell’aviazione britannica. Nello stesso anno Otto Lehmann realizzerà Stützt unsre Feldgrauen. Zereisst Englands macht (Aiuta i nostri uomini in uniforme. Distruggi il potere inglese, Fig. 24), nel quale il sostegno, morale ed economico, di operai e contadini permette letteralmente al soldato di reggersi sulle loro spalle e, da posizione privilegiata, colpire al cuore l’Impero Britannico, lacerandone impietosamente la bandiera e rimuovendola definitivamente dal panorama.

Manifesto Julius Gipkens Deutsche Luftkriegsbeute Ausstellung 1917
Fig. 23 – Julius Gipkens, Deutsche Luftkriegsbeute Ausstellung, 1917 (Stampatore: Hollerbaum & Schmidt, Berlino; Cromolitografia su carta, 407×708 mm; The Wolfsonian – Florida International University, Miami Beach).
Manifesto Otto Lehmann Stützt unsre Feldgrauen 1917
Fig. 24 – Otto Lehmann, Stützt unsre Feldgrauen, 1917 (Stampatore: Wilhelm Eisfeller Graphische Kunstanstalt, Colonia; Cromolitografia su carta, 690×970 mm; Imperial War Museum, Londra).

Si tratta di un contributo austriaco anche quello offerto da Heinrich Lefler (1863-1919), pittore, scenografo e cartellonista viennese, autore di uno dei pochi manifesti in formato orizzontale del periodo (Fig. 25). Il tema è quello della sottoscrizione pubblica, con la promessa del reddito minimo garantito, ma la resa spicca nettamente per la sopravvivenza del gusto giapponese di fine Ottocento: tinte piatte, contorni netti, assenza di profondità e di modellazione.

È contro questo genere di comunicazione stilisticamente ricercata che si scaglierà Adolf Hitler nel Mein Kampf, laddove sosterrà che la sconfitta della Germania durante la Grande guerra era stata causata anche da una propaganda assai meno efficace di quella messa in campo dalle potenze vittoriose. La propaganda, secondo Hitler, dovrebbe invece mirare a essere il più popolare possibile, in grado cioè di adattarsi al livello intellettuale e alle capacità cognitive dell’ultimo dei cittadini cui era rivolta.

Manifesto Heinrich Lefler Zeichnet 5 1/2% dritte Kriegs-Anleihe 1917
Fig. 25 – Heinrich Lefler, Zeichnet 5 1/2% dritte Kriegs-Anleihe, 1917 (Stampatore: J. Wiener, Vienna; Cromolitografia su carta, 630×950 mm; Library of Congress, Washington).

L’Italia []

Per quanto riguarda l’Italia, pur giungendo in un secondo momento sia nella partecipazione al conflitto sia nell’avviamento delle attività di comunicazione a esso collegate, l’epoca della propaganda mostra molte similitudini con gli impianti narrativo-stilistici osservati in Francia. Come tutte le altre potenze belligeranti, anche l’Italia aveva la necessità principale di finanziare economicamente lo sforzo bellico e verso questo primario obiettivo si orientò la sua comunicazione. 

Un’immagine esemplificativa del tema è il Sottoscrivete firmato Barchi (Fig. 26), manifesto veicolato anche attraverso migliaia di cartoline, ambientato su quel fronte alpino dove l’Italia, combattendo contro l’Austria- Ungheria, fu maggiormente impegnata. Una colonna di soldati italiani si inerpica su una montagna coperta di neve mentre le loro impronte lasciano il messaggio che invita a sostenere economicamente quella difficile scalata. Senza il sostegno di tutti i cittadini, pare volerci raccontare Barchi, non sarà possibile conquistare nuovi territori.

Manifesto Barchi Sottoscrivete 1916
Fig. 26 – Barchi, Sottoscrivete, 1916 (Stampatore: Armanino, Milano; Cromolitografia su carta, 688×989 mm; Imperial War Museum, Londra).

Quando finalmente la guerra volse al termine, cambiò anche l’ordine dei problemi e delle priorità che il governo italiano si trovò ad affrontare, pur restando comunque nell’ampio spettro delle necessità di carattere economico. Nell’opera firmata G. Buccomo, databile attorno al 1918, viene chiamata in causa un’allegoria nazionale (Fig. 27), quell’Italia turrita la cui iconografia risale alla numismatica romana, illustrata nell’atto di indicare a un veterano in congedo il suo prossimo compito: rientrare nella società attraverso il lavoro. L’Italia, non essendo in grado di ricollocare i quasi 4 milioni di soldati che avevano lasciato le armi dopo la fine delle ostilità, cercherà nel primo Dopoguerra di riavviare l’occupazione attraverso i lavori pubblici, finanziati anche dalle sottoscrizioni popolari. 

Manifesto Buccomo Il lavoro 1918
Fig. 27 – G. Buccomo, Il lavoro. Ecco il nuovo dovere!, 1918 (Stampatore: Officine dell’Istituto Italiano
d’Arti Grafiche, Bergamo; Cromolitografia su carta, 960×1400 mm; Imperial War Museum, Londra).

Pittore di formazione, l’italiano Mario Borgoni (1869-1936) fu cartellonista e direttore artistico della Richter & Co. di Napoli, una delle più importanti stamperie italiane tra Ottocento e Novecento. Nel suo manifesto Finalmente! (Fig. 28) un operaio di un cantiere navale, levandosi il cappello sopra il quale è posto orgogliosamente un gagliardetto tricolore, saluta il ritorno all’operosità del cantiere, le fabbriche nuovamente attive, le ciminiere fumanti, mentre una nave appena varata scivola sullo sfondo.

La sua è una posa vittoriosa, ascensionale, una freccia puntata verso l’alto, che attraverso la raffigurazione di spalle e la posizione centrale condivide il punto di vista dell’osservatorepassante: sottolinea che la ricostruzione è possibile grazie al contributo economico di tutti e che tutti infine potremo assistere a questi nuovi trionfi dell’industria. Il grande formato del manifesto, circa 99×140 cm, contribuisce a quell’opera di immedesimazione con il protagonista, essendoci presentato a una grandezza quasi naturale.

Manifesto Mario Borgoni Finalmente 1918
Fig. 28 – Mario Borgoni, “Finalmente!”, 1918 (Stampatore: Richter & Co., Napoli; Cromolitografia su carta, 997×1403 mm; Imperial War Museum, Londra).

Durante il conflitto, l’accesso dell’opinione pubblica ai fatti della guerra era stato praticamente inesistente. I cittadini delle nazioni belligeranti erano stati tenuti perlopiù all’oscuro della reale situazione del fronte e degli orrori che vi si consumavano. Man mano che il conflitto si trascinava avanti e le perdite aumentavano, il filtro delle agenzie governative sulle notizie si era stretto sempre di più, rendendo difficile se non impossibile entrare in possesso di informazioni attendibili.

La propaganda visiva, che si era espressa principalmente tramite manifesti, cartoline e francobolli, era stata l’unico strumento di mediazione tra la guerra e i cittadini e di sicuro mai avrebbe osato raccontare le reali sofferenze dei combattimenti, prodigandosi piuttosto nel dar vita a dei nemici contro cui orientare il malcontento pubblico, in modo da aumentare il sostegno morale ed economico alla guerra e la solidità del fronte interno.

L’efficacia dell’attività di propaganda fu tale che si osservò nei confronti degli avversari un odio meno vivo tra coloro che avevano vissuto di persona il fronte rispetto a chi, attraverso la comunicazione, aveva invece immaginato la guerra come uno scontro tra schieramenti antitetici, buoni da una parte e cattivi – gli avversari – dall’altra. Del resto questo è comprensibile, poiché le folle osservarono la guerra solamente attraverso le rappresentazioni che vennero loro offerte.

[Originariamente pubblicato in Alessandro Bigardi (a cura di), «Colpire al cuore. La propaganda nella Grande Guerra», catalogo della mostra, Verona, 2014, pp. 19-58]


Bibliografia []

  • Aulich James, War Posters: Weapons of Mass Communication, Londra: Thames & Hudson, 2011
  • Aynsley Jeremy, Graphic Design in Germany: 1890-1945, Berkeley: University of California Press, 2000
  • Eskilson Stephen J., Graphic Design: a History, Londra: Laurence King, 2012
  • Gallo Max, I manifesti: nella storia e nel costume, Milano: Mondadori, 1976
  • Hollis Richard, Graphic Design. A Concise History, Londra: Thames & Hudson, 2001
  • Kramer Alan, Dynamic of Destruction: Culture and Mass Killing in the First World War, Oxford: Oxford University Press, 2009
  • Meggs Philip B., Purvis Alston W., Meggs’ History of Graphic Design, Hoboken: Wiley, 2011
  • Miele Marzia, Vighy Cesarina, Manifesti illustrati della Grande Guerra, Roma: F.lli Palombi, 1996
  • Ormiston Rosalind, First World War Posters, Londra: Flame Tree Publishing, 2013